Si scrive kafala, ma si legge schiavitù. È una forma di abuso legalizzato in Medio Oriente che apre la porta a ogni forma di sfruttamento nei confronti delle lavoratrici, soprattutto domestiche. La kafala è pratica comune in Bahrein, Iraq, Giordania, Kuwait, Oman, Arabia Saudita e Emirati ma, soprattutto, in Libano, dove riguarda 250mila donne immigrate provenienti soprattutto da Sri Lanka, Etiopia, Bangladesh e Filippine.

Via libera allo sfruttamento

Il funzionamento del sistema è semplice: le lavoratrici che vogliono emigrare per lavoro, entrano in contatto con agenti nel loro Paese. Questi hanno rapporti con agenzie nel Paese dove le lavoratrici migreranno e procurano loro uno sponsor in cambio di un compenso. Le donne spesso si indebitano con la speranza di cambiare vita. E si ritrovano schiave. Normalmente, infatti, lo sponsor è il datore di lavoro, che anticipa le spese per il permesso di lavoro ed è responsabile del visto e dello status giuridico. Ha quindi un enorme potere su di loro. Un potere che va al di là del rapporto tra datore di lavoro e dipendente.

Abusi e violenze

Il 65% delle lavoratrici ha avuto esperienza di lavoro forzato e schiavitù. Violenze sessuali, gravidanze indesiderate, abusi, percosse, sfruttamento sono all’ordine del giorno. I livelli salariali di questi lavoratori sono bassi, in alcuni casi meno di 200 dollari al mese. Un datore di lavoro libanese su cinque non fa uscire il lavoratore di casa perché, se il lavoratore decidesse di fuggire, lui perderebbe l’investimento per l’assunzione (tra i due e i tremila dollari).

Quando non servono più le lavoratrici sono rispedite nel Paese di origine dai loro datori di lavoro. Tra gennaio 2016 e aprile 2017, 138 lavoratori migranti sono stati rimpatriati dopo la loro morte.

Sensibilizzazione e assistenza

Alcune donne riescono a fuggire e trovano rifugio nei centri di accoglienza per lavoratrici migranti. CELIM ha così varato un progetto che mira a garantire e potenziare la rete di protezione, accoglienza e assistenza medica, psicologica e legale per queste donne bloccate in Libano, sostenendole fino al rientro in Etiopia e negli altri Paesi di origine.

L’obiettivo è sostenere 1.500 donne negli shelter in Libano, aiutare 1.400 donne a rimpatriare (670 in Etiopia) e lavorare con 5.400 migranti in Africa per prevenire gli abusi.

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