Sono lavoratrici di serie B o, forse, di serie C. Le domestiche immigrate impiegate nelle case dei ricchi libanesi non hanno diritti né tutele sociali. Una condizione di semischivitù aggravata dalle vessazioni continue che sono costrette a subire dai loro datori di lavoro (non ultime le violenze sessuali).

Ma com’è nata questa forma di segregazione? Prima della guerra civile libanese (1975-1990), le grandi famiglie assumevano donne siriane o libanesi. Con il progredire del conflitto queste donne sono fuggite dal Paese per mettersi in salvo. È allora che, per riempire i vuoti, sono iniziate  ad arrivare molte donne asiatiche (in particolare da Bangladesh, Filippine, Pakistan e Sri Lanka) e africane (soprattutto etiopi).

Senza tutele

Per queste lavoratrici immigrate non esistono tutele. In teoria, alcune disposizioni della Costituzione e alcune leggi sul lavoro si applicano a tutti i lavoratori, compresi i migranti. Il Codice del lavoro del 1946, per esempio, vale anche per i non libanesi. Nonostante questo, all’art. 7, prevede esplicitamente che le prescrizioni non si applicano ai lavoratori e alle lavoratrici domestiche.

Un datore di lavoro libanese che vuole assumere una colf ha dunque due strade davanti. La prima è chiedere un permesso al ministero del Lavoro e degli Affari sociali. Ma è una strada che richiede molto tempo ed è costosa. La maggior parte dei datori di lavoro allora fa ricorso alla tradizione e assume attraverso il sistema di sponsorizzazione noto come kafala. Il datore di lavoro «sponsorizza» un migrante pagando una cauzione di mille dollari Usa alla Banca centrale.

Abusi e violenze

In questo modo, è il datore di lavoro locale che copre le spese per il trasporto e per il visto, dal quale dipende interamente la permanenza del lavoratore in Libano: il permesso di residenza è valido solo per la durata del contratto e prevede il rimpatrio qualora esso giunga a termine senza essere rinnovato. Con la kafala il lavoratore non può scegliere di cambiare lavoro né terminare il contratto senza un esplicito permesso scritto da parte del datore, e non senza incorrere in sanzioni o procedimenti penali. Quasi sempre lo sponsor detiene il passaporto e il permesso di residenza di chi assume, nonostante in Libano questo sia vietato dalla legge.

Le condizioni di vita delle circa 200mila domestiche straniere sono terribili. Tra di loro, è altissimo il tasso di suicidi, abusi sessuali, violenze fisiche e verbali, privazione di cibo e cure mediche, di trinceramento tra le mura domestiche comincia a venire a galla, portando all’interesse dei media internazionali.

CELIM a fianco delle donne

In questo contesto, CELIM ha varato «Donne in trappola», un progetto che si propone di fornire accoglienza e assistenza medica, psicologica e legale alle donne bloccate in Libano, sostenendole fino al rientro in Etiopia e negli altri Paesi di origine. Negli shelter Olive, Pine e Laksetha in Libano gli operatori lavorano per restituire un’esistenza dignitosa alle donne fuggite dai loro carnefici. Vengono distribuiti pasti caldi e garantita assistenza medica e psicologica: molte migranti sono infatti soggette a disturbi post-traumatici e hanno bisogno di aiuto per elaborare il trauma. A questo si aggiunge l’assistenza legale, per riappropriarsi del salario mancato, dei documenti e della possibilità di rimpatriare.

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