In Libano, la riforma della kafala è arrivata in piazza. I dimostranti che da settimane protestano contro il sistema politico e chiedono profonde riforme hanno protestato anche contro la normativa che costringe migliaia di stranieri a lavorare in condizioni di semi schiavitù (con la complicità delle autorità). Un battaglia, quella contro la kafala, che CELIM sta portando avanti da tempo.
Sfruttamento patriarcale
«La kafala – spiegano i dimostranti – fa parte di un sistema sociale settario che contestiamo alla radice perché è legato intrinsecamente a quelle strutture patriarcali che opprimono le donne libanesi e non libanesi, i gay, le lesbiche, i transessuali. Prima prenderemo atto di questo, più saremo in grado di contrastare le forze controrivoluzionarie che già si sentono minacciate dalla rivolta in corso. Solo attraverso una riforma radicale saremmo in grado di resistere ai tentativi di discriminare gruppi vulnerabili».
In Libano lavorano 250mila stranieri (tra i quali centomila donne etiopi, 47mila del Bangladesh e 19mila filippine). Come in altre nazioni del Medio Oriente, anche nel Paese dei cedri è in vigore il sistema della kafala. Questo istituto giuridico in base al quale un datore di lavoro che necessita di un lavoratore straniero si fa carico delle spese per il trasporto e per il visto e si assume la responsabilità del lavoratore queando questo raggiunge il Libano. Il permesso di residenza è valido solo per la durata del contratto e prevede il rimpatrio qualora esso giunga a termine senza essere rinnovato. Con la kafala il lavoratore non può scegliere di cambiare lavoro né terminare il contratto senza un esplicito permesso scritto da parte del datore, e non senza incorrere in sanzioni o procedimenti penali.
I lavoratori rimangono quindi legati in modo strettissimo ai loro datori di lavoro. Ciò, spesso, porta ad abusi, violenze fisiche e psicologiche. I servizi di intelligence del Libano hanno calcolato che almeno due lavoratori stranieri muoiono ogni settimana a causa delle condizioni estreme in cui vivono. Morti che, nella gran parte dei casi, vengono archiviate come suicidi.
Sostegno alle donne
In questo contesto, CELIM ha varato «Donne in trappola, garantire i diritti umani alle lavoratrici migranti in Libano e Etiopia», un progetto che mira a garantire e potenziare la rete di protezione e assistenza per 1.500 donne migranti. In Libano si punta a potenziare i servizi di accoglienza e rimpatrio nei centri di Olive, Pine e Laksetha; offrendo migliori condizioni igienico-sanitarie del centro di detenzione per migranti di Adlieh; e rafforzando l’assistenza psicologica, medica e legale per aiutare l’elaborazione del trauma vissuto dalle migranti.
Il progetto cura anche il rientro delle donne nei loro Paesi di origine e, in particolare, in Etiopia, attraverso il servizio di supporto e ricollocamento lavorativo e sociale e il potenziamento dei centri che accolgono le donne rimpatriate.