«Non è riuscito a sostenere e difendere le donne di fronte agli imprenditori e al governo libanese. Che cosa ci sta a fare il consolato etiope a Beirut?». Si apre così la lettera aperta inviata nelle scorse settimane da un gruppo di immigrate etiopi al proprio governo. La lettera è un durissimo atto di accusa contro le autorità diplomatiche di Addis Abeba e, allo stesso tempo, una denuncia del sistema di «sponsorizzazione» (noto come kafala) con il quale il Libano e altri Paesi mediorientali gestiscono il flusso di lavoratori immigrati. Un sistema che nasconde sfruttamento, violenza, prevaricazione e contro il quale CELIM combatte da alcuni anni.

«Negli ultimi dieci anni – continua la lettera -, il consolato etiope non ha risposto alle pressanti richieste delle donne in crisi e spesso la sua assenza ha creato ulteriori danni». Un esempio importante evidenziato nella lettera è il rifugio istituito all’interno del consolato etiope ma gestito e finanziato dalla comunità etiope in Libano. Nella lettera si osserva che il rifugio, composto da due stanze, può contenere solo 30 donne, ma ospita tra le 50 e le 130 donne. Tutte dormono su materassi condivisi, senza attività, nessuna rappresentanza legale e nessun accesso ai consulenti o assistenti sociali. Inoltre, le donne sono spesso lasciate rinchiuse all’interno.

Secondo i numeri ufficiali forniti dal ministero del Lavoro, in Libano sono presenti 270mila lavoratori migranti, oltre la metà sono cittadine etiopi, quasi tutte domestiche. Altri centomila lavoratori etiopi sono in Libano in modo illegale, intrappolati in una forma di purgatorio senza accesso alla residenza legale o ai loro passaporti.

La struttura della kafala è nota. Si tratta di un sistema che prevede che il datore di lavoro si faccia garante presso le autorità libanesi per i lavoratori stranieri alle sue dipendenze. Questa garanzia si trasforma spesso in un ricatto: i datori di lavoro sfruttano la loro posizione dominante per vessare i propri dipendenti. Questi, a loro vlta, si trovano in una situazione drammatica: non possono rientrare nel loro Paese (i documenti sono in mano all’imprenditore) e non possono far valere i loro diritti davanti a un tribunale. Si stima che circa due o quattro lavoratori domestici muoiano ogni settimana in Libano, con un aumento rispetto alla media di un decesso alla settimana 10 anni fa.

Nell’aprile 2018, in Etiopia c’è stato un significativo cambiamento al governo. Abiy Ahmed, politico riformista, è diventato premier e le aspettative di cambiamento. Molti speravano che grazie a questi cambiamenti si verificassero progressi significativi nella lotta al maltrattamento dei lavoratori etiopi, in particolare nella regione dell’Asia occidentale. Eppure, in Libano, non sono stati avvertiti cambiamenti. «I diplomatici vanno e vengono, ma continuano a comportarsi allo stesso modo – è scritto nella lettera -pare un problema più strutturale che semplicemente legato agli individui. Serve un grande intervento politico con una visita del primo ministro etiope in Libano. Solo in questo modo potranno esserci cambiamenti radicali».

Intanto, sul terreno, CELIM sta lavorando per sostenere le donne vittime della kafala. Il progetto mira a garantire e potenziare la rete di protezione e assistenza per 1.500 donne migliorando i servizi di accoglienza, assistenza psicologica, medica e legale e favorendo il rimpatrio. In Etiopia poi si lavora al reinserimento delle donne migranti rimpatriate attraverso il ricollocamento lavorativo e sociale per le  donne.

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