Il Libano è un Paese fragile. Vive su equilibri sociali delicatissimi che si riflettono su una vita politica travagliata. Le tensioni tra le varie componenti etnico-religiose hanno portato negli ultimi mesi a una crisi economica che rischia di sprofondare la nazione in un vortice di recessione e instabilità. In questo contesto, il Paese deve far fronte anche a un’emergenza umanitaria esplosiva. Ed è proprio in questo ambito che CELIM è attivo attraverso il sostegno alle lavoratrici straniere prigioniere della kafala. Ma andiamo con ordine.

Rifugiati e migranti

Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), il Libano ospita il maggior numero di rifugiati siriani pro capite al mondo. Il Governo del Paese stima che i rifugiati siriani siano circa un milione e mezzo su un totale di poco più di 4 milioni e mezzo di libanesi. A questi, vanno aggiunti anche i 18.500 rifugiati provenienti da Etiopia, Iraq, Sudan e altri Paesi, ma anche i circa 200.000 rifugiati palestinesi che dal 1948 vivono nel Paese sotto il mandato delle Nazioni unite.

Ai rifugiati, si aggiungono poi 250mila lavoratori domestici stranieri. Persone che aiutano nelle faccende di casa, facendo le pulizie e cucinando per chi sta tutto il giorno fuori per lavoro; o magari assistono anziani non autosufficienti, aiutandoli a lavarsi, vestirsi, somministrando loro medicinali. Collaboratori domestici, insomma, oppure badanti. La maggior parte sono donne: provengono soprattutto da Etiopia, Filippine e Bangladesh, mentre una decina di anni fa arrivavano soprattutto dallo Sri Lanka. Le loro condizioni di vita e di lavoro, denunciano Amnesty International e l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), sono però a rischio sfruttamento. Colpa di un meccanismo chiamato kafala.

Kafala-schiavitù

La kafala è un sistema previsto da molti ordinamenti giuridici mediorientali in base al quale la residenza di un lavoratore migrante e il permesso di lavoro vengono concessi solo dietro la garanzia personale di un datore di lavoro libanese. Una sorta di schiavitù moderna che affida il destino del migrante al padrone: spesso, addirittura, è quest’ultimo a possedere fisicamente il passaporto della collaboratrice domestica, che in questo modo si trova imprigionata, senza possibilità di godere dei basilari diritti a libertà e movimento.

Così, anche quando la donna riuscisse a rientrare in possesso dei propri documenti e fosse in grado di lasciare il lavoro (spesso non ha la possibilità di uscire di casa, dove si trova letteralmente imprigionata), perderebbe il diritto a stare in Libano, diventando di conseguenza illegale e rischiando il rimpatrio, quando non l’arresto.

Etiopia-Libano, linea diretta

Per sostenere queste donne vittime del sistema della kafala è stato lanciato «Donne in trappola – Garantire i diritti umani alle lavoratrici migranti in Libano e Etiopia». È un progetto che opera a due livelli: in Libano e in Etiopia. Nel Paese mediorientale, CELIM, insieme a partner locali e internazionale è impegnato nel potenziamento dei servizi di accoglienza, protezione e rimpatrio dei tre shelter di Olive, Pine e Laksetha, nel miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie del centro di detenzione per migranti di Adlieh, nell’assistenza psicologica, medica e legale per aiutare l’elaborazione del trauma vissuto dalle migranti e favorirne il rimpatrio.

Un lavoro fondamentale che però rimarrebbe incompleto se non si intervenisse anche in Etiopia, il Paese dal quale partono. In Africa orientale, il progetto prevede il potenziamento delle capacità di accoglienza e di reinserimento economico-sociale di due shelter a favore delle donne migranti rimpatriate; l’avviamento di un servizio di supporto e ricollocamento lavorativo e sociale per le donne rimpatriate e le loro famiglie; il rafforzamento del dialogo e attività di sensibilizzazione sulla protezione dei migranti rivolto a istituzioni, comunità di origine e datori di lavoro in Libano.

«La kafala – spiegano i responsabili di CELIM – può trasformarsi in una schiavitù che non lascia speranze per le migranti. Il nostro sostegno vuole ridare loro una nuova prospettiva di vita. Un futuro libero nel loro Paese, insieme ai loro famigliari».

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