Per Giulia il servizio civile era un sogno e una speranza. Quest’anno aveva deciso di partire per lo Zambia per lavorare in un progetto CELIM. Purtroppo la lunga quarantena le ha impedito di partire ma, quello che poteva sembrare un limite, si è trasformato in una risorsa…

Viviamo in un’epoca in cui tutto è a portata di mano. In una società come la nostra, frenetica ed irrequieta, sembrano essere ancora poche le persone in grado di concedersi il lusso di fermarsi un attimo e sono ancora meno quelle capaci di apprezzarlo. In questa società determinata ed arrivista, in cui l’agenda inizia a riempirsi ancor prima di saperci scrivere, tutti ci dicono che dobbiamo fare cose, rispettare scadenze, ottenere e raggiungere, ma nessuno ci insegna a valorizzare la noia, quella sana, che permette di apprezzare l’essere piuttosto che l’apparire.

Poi capita che una mattina ti svegli e tutto è diverso. In quella mattina, di un giorno apparentemente banale, ti ritrovi a far parte di una situazione che, fino al giorno prima, pensavi di poter vivere solo in un film. Nelle mattinate successive rimani ancora incredulo, incapace di stabilire se quella che vedono i tuoi occhi sia veramente la realtà o se sia solo frutto di un brutto sogno. E per un certo periodo, svegliarsi, è sembrato essere il regalo più grande che la vita potesse farci.

Tra il caos generale, le opinioni contrastanti e le emozioni più svariate e indefinite, tutto improvvisamente si interrompe. La vita è come se iniziasse a rallentare, per alcuni addirittura si ferma. Un virus di portata mondiale ci coglie impreparati e ci induce a restare a casa, evitando contatti di qualsiasi tipo. Gli impegni vengono annullati, gli appuntamenti posticipati a data da destinarsi, le priorità perdono la loro essenza e diventano banalmente ordinarie. In tutto questo marasma, in questa indefinitezza straziante in cui le presenze fisiche iniziano a distanziarsi, una sola cosa rimane intaccata: il bisogno di relazione.

Nonostante tutte le difficoltà, le domande, i dolori e le perdite, le persone hanno comunque trovato il modo di rimanere in contatto, come se continuare a sentire o vedere (seppur a distanza) volti familiari fosse l’unica cosa capace di far assaporare un po’ di normalità, quella normalità tanto preziosa quanto spesso data per scontata. E questa relazione, questa vicinanza, io ho potuto viverla anche con chi ancora non conoscevo.

Ad aprile sarei dovuta partire con il servizio civile universale, direzione Zambia. Il desiderio di partire è sempre stato forte, ma gli impegni, gli studi e, soprattutto, la paura hanno sempre avuto la meglio. Ora però sentivo che il mio momento era arrivato: non sono cose che si decidono, si sentono soltanto. Il destino ha voluto però che per cause di forza maggiore tutto venisse posticipato, nella speranza che un ritardo si limitasse a rimanere tale senza essere sostituito da una cancellazione. Non potendomi recare fisicamente a Lusaka, mi è stata data però una bellissima opportunità, per la quale sono estremamente grata, ovvero quella di poter comunque incontrare i ragazzi del Mthunzi Centre.

Quelle che erano nate inizialmente come  lezioni di alfabetizzazione in inglese si sono rivelate in realtà una bellissima occasione dalla quale trapelava il vero obiettivo di queste videochiamate: conoscersi e sentirsi vicini, nonostante la lontananza. Mi sono sentita fortunata.

Difficile descrivere le emozioni provate: il timore iniziale, legato a quelle che si ipotizzavano poter diventare difficoltà a livello di comunicazione, ha avuto vita talmente breve da lasciare solo un vago ricordo. Ricordo al contrario un gran calore, così nitido e raro, difficilmente percepibile da individui che sembrano essere inizialmente degli sconosciuti. Quel calore penso possa essere descritto come la sensazione che si prova a essere accolti, sentendosi parte di qualcosa che fino a qualche settimana fa era sconosciuto mentre ora sembra così familiare. I sorrisi, l’entusiasmo, gli sguardi curiosi, gli applausi e le canzoni in coro: tutti questi elementi messi insieme hanno ristretto le distanze a tal punto da annullare i confini, gli spazi, i continenti, tanto da farmi sentire lì in quella stanza con loro. Ero dietro allo schermo del computer di casa mia e allo stesso tempo ero in Africa, con loro. E il tempo vola ogni volta senza che nemmeno ci si faccia caso.

Sono state quelle emozioni, tanto brevi quanto intense, che mi hanno dato un motivo valido per avere pazienza. Quel calore, tutt’altro che scontato, mi ha fatto affrontare i dubbi che spesso nell’attesa e nell’indeterminatezza possono farci vacillare. Certo le domande rimangono, e di sicurezze ancora non ce ne sono, ma quel che so è che le distanze, seppur enormi, sono diventate minime; ed ora, non vedo l’ora di partire.