I bisogni nel Sud del mondo sono ancora tanti, forse più di un tempo. Della cooperazione c’è quindi ancora bisogno, ma la cooperazione deve essere in grado di adattarsi a queste crescenti necessità, cercando nuovi strumenti e nuove forme di azione senza mai dimenticare i valori che sono alla base della sua storia. In settant’anni, CELIM è stata in grado di trasformarsi e di crescere, professionalizzandosi e specializzandosi, traendo la sua forza proprio da quella tensione ideale che è alla base della sua nascita. Questo le darà la forza e lo slancio per superare le sfide future. Così Daniele Conti, 60 anni, vicepresidente della nostra Ong, vede il futuro di CELIM. La sua è un’analisi che parte da lontano. Da quell’esperienza che ha vissuto alla fine degli anni Ottanta in Zambia insieme alla moglie. «Ho conosciuto CELIM quando ero ventenne – ricorda -. Erano anni in cui il forte impegno politico dei giovani degli anni Settanta aveva ceduto il passo a un maggiore impegno sociale che cercava di costruire risposte concrete ai bisogni degli ultimi. L’arrivo a CELIM è stato il naturale sbocco del mio impegno in parrocchia, è quindi stato il frutto di un percorso di fede. Un tragitto personale ma che, allora, molti della mia generazione hanno condiviso».

Grazie all’incontro con CELIM si è poi concretizzato il desiderio di fare un’esperienza, nell’ambito del servizio civile internazionale, per l’Africa…

«Nel 1989 io e Carla, mia moglie, siamo partiti per lo Zambia. Per due anni ci siamo occupati di un progetto di sviluppo agricolo finanziato dal ministro degli Affari esteri italiano. Lavoravamo in un’area complessa che i locali chiamano Valle della morte, una depressione creata dal fiume Zambesi nella quale il governo aveva trasferito le comunità che erano state sfollate dopo la costruzione della diga Kariba. L’area era densamente abitata e già allora si iniziavano a intravedere quei problemi di fragilità ambientale che poi nel corso del tempo sono emersi prepotentemente, sottraendo risorse preziose alle famiglie e aumentandone la povertà. Per due anni io e Carla abbiamo lavorato a fianco dei contadini aiutandoli con azioni di sviluppo rurale in un’ottica cooperativa. A fianco di queste azioni, c’erano anche programmi per promuovere il ruolo della donna nelle comunità locali. Il nostro impegno ha sempre tenuto presente le caratteristiche culturali delle popolazioni locali. Non abbiamo mai voluto imporre una nostra visione, al contrario abbiamo sempre cercato, attraverso un’azione continua di mediazione, di favorire cambiamenti graduali nella società».

Come ha inciso nella sua vita questa esperienza in Africa?

«Quella con CELIM è stata un’esperienza molto forte che ha segnato lo stile di vita mio, di mia moglie e, direi, della mia intera famiglia. Tanto è vero che, una decina di anni dopo, abbiamo fatto un’altra esperienza come laici missionari nell’ambito dei progetti di scambio ecclesiale della diocesi milanese».

Quali valori ha portato con sé dal continente africano?

«Nel mio bagaglio ho portato con me, anzitutto, il rispetto per la diversità. La diversità è una ricchezza che ci rende migliori se accettiamo di conoscere chi vive a fianco a noi e sappiamo metterci in ascolto della sua storia, della sua cultura, delle sue tradizioni. Poi direi che le esperienze di cooperazione mi hanno insegnato la sobrietà, cioè un approccio essenziale alle cose. Si tratta di una dimensione importante da trasmettere soprattutto ai più giovani che si approcciano a una realtà, come quella italiana, molto diversa nel quale a dominare è l’immagine e il superfluo. Di fronte a questa ricchezza che ho portato con me, devo ammettere che la vita del cooperante comporta anche difficoltà. Il più grosso è il rientro in patria. C’è il rischio del reducismo, cioè di esaltare quanto vissuto all’estero contrapponendolo alla situazione che si vive in Italia. Il vero valore invece è fare dell’esperienza vissuta una ricchezza da innestare nella propria esperienza di vita quotidiana, professionale, famigliare».

Rientrato dall’Africa ha continuato a impegnarsi in CELIM, che cosa ha donato della sua esperienza?

«In Italia ho cercato di trasmettere la necessità di allargare lo sguardo oltre al contesto locale, di pensare che, al di là dei nostri confini, ci sono realtà e tradizioni culturali che possono arricchirci. Come dicevo prima, la diversità è un valore positivo da trasmettere ai ragazzi e alle ragazze fin dalla scuola. Una visione alla quale, negli anni, CELIM è stato in grado di far fare un passo in avanti, promuovendo nelle scuole progetti che diffondono anche un’attenzione ai valori dell’integrazione sociale (sempre più necessaria nella nostra società) e una sensibilità ai temi ambientali e dello sviluppo sostenibile».

In questi anni come ha visto cambiare CELIM e come vede il futuro della nostra Ong?

«CELIM è cambiato molto perché molto è cambiata la cooperazione. Quando siamo partiti la prima volta per l’Africa, i nostri progetti erano caratterizzati da una preparazione limitata e da un grande spontaneismo. Ora c’è una maggiore progettazione e specializzazione, poco o nulla è lasciato al caso, ogni aspetto dei progetti è studiato con attenzione e analizzato a posteriori. Mi piace però credere che oggi, come allora, non sia venuta meno la spinta ideale che muoveva noi giovani degli anni Ottanta e credo muova anche i cooperanti di oggi. Penso che i valori di attenzione alle persone, gratuità, legame al territorio e alle culture diverse siano ancora intatti. E credo che proprio partendo da essi CELIM possa costruire il proprio futuro».

I 70 anni di CELIM visti dai protagonisti