242 studenti di scuola secondaria di primo grado, distribuiti in 12 classi, hanno partecipato a sessioni educative dedicate. Una cinquantina di docenti sono stati formati per prevenire e gestire episodi di odio e discriminazione in ambito scolastico. 117 giovani sportivi, di età compresa tra gli 11 e i 17 anni, appartenenti a 7 gruppi sportivi, hanno preso parte a incontri formativi. Un gruppo di attivisti digitali è stato formato per rispondere in modo costruttivo ai commenti d’odio su piattaforme come Instagram e TikTok. Allenatori e volontari di due società sportive del territorio milanese hanno ricevuto formazione specifica per creare ambienti sportivi inclusivi.

Sono questi i numeri delle attività di Odiare non è uno sport, progetto che ha visto CELIM impegnata nel contrasto alla circolazione online di discorsi d’odio legati all’ambito sportivo coinvolgendo scuole e società sportive dilettantistiche. “Grazie a un approccio integrato che unisce educazione, sport e attivismo digitale – spiega Sara Donzelli di CELIM -, il progetto punta a promuovere una cultura del rispetto e dell’inclusione, sia online che offline. Un fenomeno, quello dell’odio nei campi sportivi e onlibe, che è molto diffuso e in preoccupante aumento”.

Il Barometro dell’odio nello Sport ha analizzato oltre 3,4 milioni di commenti su Facebook e circa 29.600 su Twitter, rilevando che circa un milione di questi erano classificabili come hate speech, con circa 200.000 contenenti riferimenti discriminatori. Il calcio emerge come tema dominante, rappresentando circa il 96% dei post analizzati. Dal 2019, i post senza commenti d’odio su Facebook sono diminuiti dal 25,7% al 15,1%, mentre quelli con più di 25 commenti di hate speech sono aumentati dal 13,6% al 29,8%. Su Twitter, la percentuale di hate speech è cresciuta dal 31% al 54,9% nello stesso periodo. Inoltre, il linguaggio aggressivo rappresenta il 67,3% delle interazioni, seguito dal linguaggio volgare al 22,1%. Sebbene la discriminazione e l’aggressività fisica abbiano registrato una lieve diminuzione, restano preoccupanti.

“Il fenomeno dell’odio nello sport è sempre esistito sia all’interno delle società sia tra i tifosi – spiega Giulia Rulli, psicologa dello sport che ha collaborato con il progetto -. Adesso però c’è più attenzione verso la tematica anche perché nella nostra società ci sono molti più strumenti (Web, video, audio, ecc.) che permettono la diffusione di questo odio. A ciò va aggiunto che questa è la prima generazione di famiglie che partecipa in modo attivo, sia economicamente sia emotivamente, allo sport dei figli”.

Ma dove nasce questa violenza? Il primo ambiente in cui cresce il germoglio della violenza è la famiglia. È in casa che si apprendono i comportamenti irrispettosi. Anche nelle società sportive che si possono però trasmettere i disvalori della mancanza di rispetto dell’avversario, della vittoria a tutti i costi, del linguaggio violento verbale e non verbale. “In questi tempi – continua la psicologa -, questi atteggiamenti negativi si fondono con un sentimento diffuso di paura nel confronto del diverso e un’incertezza globale. Ciò porta all’accumularsi di frustrazioni che si scatenano nei confronti degli altri con effetti potenzialmente devastanti sui ragazzi e sulle ragazze, in particolare sugli adolescenti che sono in una delicata fase di crescita”.

Secondo Giulia Rulli, gli unici strumenti per contrastare questo odio è la formazione sia dei ragazzi sia degli educatori. “La formazione – conclude – è fondamentale per creare negli allenatori, che sono educatori, la consapevolezza del loro ruolo e dell’impatto che possono avere sui più giovani. Ma è importante anche educare i giovani a riconoscere e a evitare il linguaggio d’odio. In questo senso, progetti com Odiare non è uno sport sono fondamentali per fare crescere un nuovo ambiente sportivo aperto, tollerante e in grado di evitare che l’odio colpisca ragazzi e ragazze e li segni per la vita”.

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