Marco Trovò ci ha inviato una testimonianza sull’esperienza che sta vivendo come volontario in servizio civile in Zambia. Parole dalle quali emergono le difficoltà dell’impatto con un mondo diverso da quello in cui ha sempre vissuto, ma anche la ricchezza dell’esperienza che sta sperimentando in Africa.

Ho trascorso in bianco la notte prima di imbarcarmi sull’aereo che da Milano mi avrebbe portato a Lusaka. Nella mia testa continuava a ripresentarsi la domanda «ma davvero tra due giorni sarò in Africa a far volontariato per un anno intero?».

Poi, la frenesia della mattinata successiva contribuì a eradicare quel pensiero. Un treno, poi la coincidenza. Il Freccia Rossa, pieno di business-men, diretto a Milano. Carmen che sale a Verona per fare un tratto di viaggio assieme. Poi Milano Centrale. La navetta per Malpensa. Le lacrime, gli addii, gli abbracci, le ultime foto. L’incontro con Gabriele, i controlli di sicurezza, Green Pass sì, Green Pass no. Febbre Gialla. Valigie ok.

E poi… Poi è difficile da spiegare. Ricordo la Sicilia vista dal finestrino dell’aereo. Lì, iniziai effettivamente a realizzare. Sto andando in Scu in Zambia per un anno.

Poi l’arrivo altrettanto frenetico. Scendi dall’aereo, Green Pass sì, Green Pass no. Passaporto. Immigration Office per applicare per quel Working Permits tanto sudato nei mesi precedenti. Le prime frasi in inglese-africano. Che poi chi lo capisce l’inglese-africano?! Quel povero immigration officer che mi ha ripetuto sette volte cosa dovevo fare. E alla settima ancora non ero ancora sicuro di aver capito bene. Poi l’incontro con Mariangela, la mia Olp per i prossimi dieci mesi. Poi la serata, passata a fare una veloce spesa. Che strani i supermercati in Zambia, vendono il latte in busta! La notte ero totalmente stremato dalle 22 ore di aereo. Ricordo solo di aver pensato come ultima cosa prima di crollare per il sonno «Sono davvero in Zambia!?».

La mattinata seguente, lo Scu Estero ha avuto finalmente inizio. La formazione con i colleghi zambiani. Il pranzo a base di nshima, pollo grigliato e bruchi. Il primo di una lunga serie.

Ricordo che l’inizio dello Scu non è stato semplice. Il lavoro era molto. Le deadline erano quelle dell’Italia, super stringenti. E se sgarravi, guai! Ma al contempo si doveva lavorare con colleghi e istituzioni zambiane. Ah, lo Zambian Time. Tutti ci scherzavano sopra. Io pure credevo fosse un modo di dire. Tipo i milanesi che mangiano alle 7 di sera o i Veneti con la Nebbia e Polenta. Ma quando la vasca di casa nostra si è rotta e gli idraulici impiegarono «solamente» nove giorni per ripararla, ho iniziato a capire che lo Zambian Time non era solamente un modo di dire. E quanto mi sono arrabbiato all’inizio! Io, perfettino nell’animo, che se in Italia mi si dava un appuntamento per le 15, alle 15.05 se non si era fatto vedere nessuno, inizio a chiedere se ci sono stati dei problemi.

Una volta superato lo choc culturale del venir catapultati in due giorni a 7000 km di distanza, è iniziato il bello del servizio civile. Le visite al Mthunzi Centre, le chiacchierate con i ragazzi che erano stati tolti dalla strada, da una vita di stenti e violenze, ed erano stati reinseriti in società, nel sistema d’istruzione zambiano, nei buoni valori e maniere che ogni cittadino dovrebbe avere. «La prima volta che mi hanno portato a Mthunzi, ho pianto tutta la notte. Ma poi ho iniziato a capire che mi era stata data una grande opportunità”, queste le parole che uno dei ragazzi del Mthunzi mi ha detto un giorno.

E poi ci furono le visite nei compound, per rilevare le condizioni di vita delle famiglie di origine dalle quali provenivano gli street children. Che magone che mi prendeva le prime volte. Famiglie di 10, anche 15 persone, che vivevano tutte sotto lo stesso tetto. Uno stipendio, se così si può chiamare, di 30-40 euro al mese per sfamare tutte quelle bocche. Ricordo Daniel, padre di Nelia, giovane beneficiaria del progetto presso il Londjezani Center. Daniel è un costruttore di asce, che poi vende a una manciata di kwacha lungo strada. Con quei proventi, porta il cibo in tavola per Nelia e gli altri fratelli. Di Daniel ricordo lo sguardo fiero di chi sa che ce la sta mettendo tutta, ma che è mutato in imbarazzato non appena gli ho chiesto di firmare il modulo con le informazioni che avevo appena raccolto dal nostro colloquio. Daniel, infatti, come molti altri genitori che vivevano nei compound, è analfabeta. Mai prima d’ora mi era capitato di realizzare la differenza di opportunità a disposizione del singolo individuo. Nello smartphone che tenevo in tasca avevo accesso a tutta la conoscenza del mondo se ne avessi voluto accedervi. Ma Daniel, non solo uno smartphone non poteva nemmeno permetterselo, ma neppure avrebbe saputo che farsene.

È stato proprio in quell’occasione che ho compreso quanto grande è l’opportunità che era stata data a me, volontario Scu, partecipando al Progetto Caring for the Youth in Zambia, a 7000km di distanza da quella che ero solito chiamare casa. Ma ancor più grande era l’opportunità che veniva data agli ex street children, beneficiari del progetto, e alle proprie famiglie. Non solo veniva garantita un’istruzione di qualità a ragazzi che altrimenti avrebbero continuato la loro vita nella dura strada, lontano dal fascino dell’arte e della letteratura, ma questa opportunità veniva estesa anche alle loro famiglie, che avevano così la possibilità di assicurare istruzione e futuro dignitoso ai loro figli, grazie agli sforzi di CELIM. Sforzi dentro ai quali c’era anche il mio, seppur piccolo, contributo.

 

 

 

Progetti correlati