Nel mondo, 71 milioni di ettari di terra nei Paesi in via di sviluppo sono stati acquistati da Stati stranieri o da grandi imprese che li sfruttano non per le esigenze delle popolazioni locali, ma per grandi coltivazioni, spesso a monocultura, e per lo sfruttamento di risorse naturali.

Terra rubata

A denunciarlo «I padroni della terra», il rapporto Focsiv 2019 che affronta il tema dell’accaparramento della terra (landgrabbing). Un fenomeno guidato da interessi economici e politici di poteri sovrani ed imprenditoriali che si svolgono al di sopra di diritti, bisogni e speranze delle comunità locali.

«Il rapporto – spiegano gli autori – parte da una considerazione: la globalizzazione ha reso il nostro Pianeta un unico grande villaggio governato dalla finanza mondiale, e sempre più spesso ci dimentichiamo che questo mondo è anche finito, limitato, e le sue risorse, in particolare quelle non rinnovabili, sono sempre più scarse. In questo quadro globale, i padroni della terra non sono più i suoi custodi ma ristrette élite politiche, finanziarie ed economiche che decidono dello sviluppo di tutti, sfruttando ed esaurendo beni comuni insostituibili (terra e acqua in primis)».

«I padroni della terra» contiene una serie di informazioni e dati sul tema, raccolti attraverso la fonte Land Matrix, e riporta alcune storie di sopraffazione delle comunità più povere in Repubblica Democratica del Congo, Madagascar, Mali, Etiopia e Amazzonia peruviana, per poi entrare nel merito degli strumenti normativi che possono regolare il comportamento delle imprese e degli Stati per la difesa del diritto alla terra.

Dall’analisi dei casi Paese, emerge con forza l’impatto dell’accaparramento delle terre finalizzato all’estrazione di minerali. A questo proposito, Papa Francesco è stato molto chiaro con le compagnie minerarie: «L’attenzione alla tutela e al benessere delle persone coinvolte nelle operazioni minerarie, così come il rispetto dei diritti umani fondamentali dei membri delle comunità locali e di coloro che difendono le loro cause sono principi non negoziabili. La sola responsabilità sociale d’impresa non è sufficiente. Dobbiamo assicurare che le attività minerarie conducano allo sviluppo umano integrale di ciascuna ed ogni persona e dell’intera comunità».

A contatto con la comunità

In questo contesto, CELIM viaggia controcorrente. I progetti agricoli varati in Africa lavorano in zone marginali e scommettono sulle comunità locali.

In Mozambico, per esempio, si lavora in Zambezia una regione con un tasso di povertà che è salito dal 41% (2008) al 55% (2015). Il piano d’azione prevede interventi per migliorare la produzione agricola e promuovere la diffusione e il potenziamento di nuove filiere (garantendo in questo modo la diversificazione produttiva). I beneficiari sono 3.952 produttori (1.899 uomini e 2.053 donne) dei distretti di Morrumbala e Nicoadala. Di questo progetto beneficerà indirettamente anche una popolazione di circa 20mila persone vulnerabili. Sempre in Zambezia, è attivo un progetto per ridurre il tasso di denutrizione attraverso l’aumento e la diversificazione della produzione agricola promuovendo la trasformazione e la vendita in loco dei prodotti dell’apicoltura e della piscicoltura.

In Zambia il progetto si concentra a Mongu e Limulunga, distretti nei quali l’80% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Si promuove la creazione di orti, nei quali saranno coltivati ortaggi che potranno essere consumati direttamente o venduti sui mercati, e la coltivazione di moringa, patata dolce e mango.

In Kenya, il Paese africano con il più alto consumo pro capite di latte, si lavora per sviluppare una filiera lattiero-casearia di qualità attenta ai cambiamenti climatici intervenendo su duemila micro-imprese, favorire l’accesso al credito e sostenere forme di micro-imprenditorialità locale.

Per CELIM, quindi, l’agricoltura e l’allevamento sono strumenti di sviluppo delle popolazioni locali. Mezzi attraverso i quali gli africani lavorano per costruire il loro futuro lontano anni luce da logiche di sfruttamento.